Tomislav Nikolić

"Abbiamo intenzionalmente fissato il traguardo troppo in alto affinchè i Serbi possano raggiungerlo. Hanno bisogno di bombardamenti ed è questo ciò che otterranno." Questo è come all’ora il Segretario di Stato statunitense Madeleine Albright ha descritto il progetto di accordo di pace durante una pausa alla conferenza in Rambouillet (Febbraio 1999). All’epoca la delegazione jugoslava aveva affermato la sua volontà di concedere molti punti, con l’eccezione dell’indipendenza del Kosovo (la quale era negoziabile per gli albanesi). Ma gli jugoslavi non visionarono il progetto finale dell’accordo fino all’ultimo giorno delle contrattazioni, e da come è emerso, due terzi di quel documento era completamente nuovo ai loro occhi (e gli era stato propinato letteralmente solo poche ore prima della scadenza della firma). In particolare, uno dei capitoli nuovamente introdotto (n. 7, appendice B, pag. 79), definito per il dispiego delle forze NATO non solo in Kosovo ma attraverso tutta la Repubblica Federale di Yugoslavia. In aggiunta, il personale dell’alleanza sarebbe, in questo caso, "stato immune alla giurisdizione delle parti coinvolte riguardo ad ogni violazione civile, amministrativa, criminale o disciplinare" e sarebbe "stato accolto, insieme con i loro veicoli, imbarcazioni, velivoli ed equipaggiamenti, liberamente e senza restrizioni il passaggio e l’accesso senza impedimento attraverso la Repubblica Federale di Jugoslavia inclusi annessi spazio aereo e acque territoriali." (par. 6-8)

Sentendosi come se fosse stato loro richiesto di accettare i termini di occupazione e di resa, i funzionari di Belgrado si rifiutarono di firmare l’accodo. La NATO considerò quindi questo rifiuto un casus belli: dopo che il governo serbo rifiutò definitivamente l’ultimatum imposto su di loro nel documento, l’alleanza diede inizio ai bombardamenti in Jugoslavia il 24 Marzo 1999. É significativo che Henry Kissinger successivamente definì l’accordo di Rambouillet "una provocazione, una scusa per dare inizio ai bombardamenti."

Come risultato, i 78 giorni dell’Operazione delle Forze Alleate della NATO, che non fu mai approvata dal Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, danneggiarono o distrussero 89 fabbriche ed impianti industriali, 48 ospedali ed infermerie, 18 asili, 9 edifici universitari, 4 dormitori, 82 ponti, 35 chiese e 29 monasteri. Al tempo il governo fece una stima di 100 milioni di dollari per il danno inflitto alle infrastrutture e all’economia del paese. Ma la più grande tragedia fu che durante i bombardamenti (che includevano, nonostante il divieto, l’uso di bombe a grappolo e proiettili ad uranio impoverito) furono uccisi approssimativamente 2.000 civili e altrettanti 10.000 furono feriti gravemente.

Paradossalmente, il 12 Febbraio 2016, il parlamento serbo ha ratificato un nuovo accordo con la NATO che includeva termini molto simili a quelli richiesti a Rambouillet 17 anni fa. In altre parole, il traguardo che alla fine del 20° secolo Belgrado considerava "troppo in alto" e che non poteva essere digerito neppure al costo della guerra, è stato accettato -poco per volta, con discrezione e quasi docilmente- nel corso dell’ultimo decennio dai nuovi leader della Serbia.

In particolare, l’Accordo tra il Governo della Repubblica di Serbia e la NATO Support and Procurement Organisation (NSPO) sulla Cooperazione per il Supporto Logistico impone al governo di Belgrado di concedere al personale della NSPO: di muoversi liberamente ovunque nel paese (articolo 10, paragrafo 2), di accedere a tutte le strutture pubbliche e private (articolo 11, paragrafo 1), l’immunità diplomatica secondo la Convenzione di Ginevra (articolo 10, paragrafo 1) nonché di esentare le proprietà e i rappresentanti dell’Alleanza dai dazi doganali e dalle tasse (articolo 10, paragrafi 4 e 5).

Questo accordo è stato firmato nel Settembre 2015, ma non ha quasi ricevuto nessuna copertura mediatica, e pertanto il "campanello di allarme" è scattato per il pubblico solo dopo la ratificazione del Febbraio 2016. Per rispondere al malcontento popolare e alle critiche degli oppositori, il Primo Ministro Aleksandar Vučić ha chiesto: "Se abbiamo intenzione di chiedere alla NATO di protegger i serbi nel Kosovo settentrionale, come possiamo allo stesso tempo non permetterle di entrare Kosovo settentrionale?"

Ma, in realtà, questa domanda retorica è insensata (e non solo perché la NATO possiede il proprio campo di aviazione in Kosovo come anche Camp Bondsteel, la seconda più grande base militare americana in Europa). La NATO non ha mai avuto alcun ruolo nel proteggere gli interessi serbi in Kosovo.

Qui vi è un esempio. Il 3 Novembre 2013 si svolsero le elezioni locali nel Kosovo settentrionale per la prima volta sotto l’autorità del governo in Pristina. Alla fine della giornata, l’affluenza degli elettori in molte città variava dal 5% al 14%. Poiché i serbi non volevano prendere parte alla legittimazione della repubblica autoproclamata, fu lanciata una campagna per boicottare ciò che loro hanno soprannominato le "Elezioni albanesi" (“šiptarske izbore”). Episodi di violenza scoppiarono durante la sera: un gruppo di truffatori armati si accostarono con una jeep senza numero di targa facendo irruzione in un seggio elettorale in Kosovska Mitrovica, e distrussero le urne (è interessante che la polizia ed il personale dell’OSCE aveva lasciato la stazione mezzora prima dell’attacco). Nonostante i leader della campagna di boicottaggio non fossero né coinvolti né complici di questo incidente, Belgrado , Pristina e Bruxelles li incolparono dichiarando inoltre che la bassa affluenza al voto era il risultato della "intimidazione" pubblica degli oppositori dell’elezione. Fu fissata una nuova elezione il 17 Novembre.

Quel giorno Kosovska Mitrovica fu letteralmente inondata di soldati e polizia, armati fino ai denti alla guida perfino di veicoli corazzati (essi includevano personale delle forze KFOR delle NATO, della Missione di Polizia dell’Unione Europea e il corpo di polizia del Kosovo)! Tutto ciò per dire che nulla ostacolava l’Alleanza nell’interferire negli eventi del Kosovo settentrionale quando c’era qualcosa da guadagnare nel far ciò. Ad ogni modo, a quel tempo il suo ruolo consisteva nello scoraggiare proteste pacifiche e dimostrazioni di forza della popolazione locale serba.

Questo fu un esempio di un elezione (innescata dall’Unione Europea) che si svolse realmente con una pistola puntata alla testa. Malgrado le pressioni subite e la minaccia dei licenziamenti e la perdita dei benefici garantiti da Belgrado, come anche altri piccoli sporchi giochi -solo il 22.8% dei votanti alla fine si sono presentati alle urne. Ma questo non ha fermato l’Unione Europea a riconoscere valide le elezioni, anche se nel Febbraio 2012, Bruxelles si rifiuto di accettare il risultato di un referendum tenuto nel Kosovo settentrionale nel quale il 75.28% dei votanti si presentò e il 99.74% di essi voto contro il riconoscimento del governo della "Repubblica del Kosovo".

É un dato di fatto che dopo che le forze NATO sono entrate nel Kosovo, approssimativamente210.000 persone furono costrette ad andarsene (secondo l’Ufficio dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite), più di 300 serbi furono uccisi e 455 scomparvero nei soli primi 5 mesi di permanenza delle forze internazionali per il mantenimento della pace. In aggiunta, durante la famigerata onda di violenza avvenuta tra il 17 ed il 19 Marzo 2004, i rappresentanti della NATO permisero passivamente agli estremisti albanesi di bruciare più di 900 case serbe e di dare fuoco, danneggiando gravemente, e dissacrando 35 monasteri ortodossi (molti dei quali risalenti al XIV, XV e XVI sec. e alcuni persino sotto la tutela dell’UNESCO), allontanando allo stesso tempo più di 4.000 serbi della loro regione.

Partenariato ma non adesione

I leader serbi non si stancano mai di rassicurare i loro cittadini che non hanno alcuna aspirazione di aderire all’Alleanza NATO. "La Serbia non intende unirsi alla NATO, vuole essere militarmente neutrale", ha dichiarato ancora una volta il Primo Ministro Aleksandar Vučić (il 2 Marzo 2016),commentando la richiesta dei partiti dell’opposizione di indire un referendum sulla questione. Il capo del governo non crede che ci sia necessità per la popolazione di votare a riguardo. Ed è vero che la volontà popolare sarebbe facile da prevedere, poichè secondo gli ultimi sondaggi pubblici, condotti a Gennaio e a Febbraio di quest’anno, solo il 10.5% dei cittadini serbi è a favore dell’idea per un’adesione alla NATO, mentre il 79.1% si oppone (10.4% si astiene). Uno studio recente dell’IPSOS ha rivelato un andamento analogo: solo il 7% esprime un parere positivo all’alleanza.

É esattamente questo il motivo per cui la ratificazione dell’accordo è stato riportata dai media solo dopo i fatti, e che il Presidente Tomislav Nikolić abbia siglato di tutta fretta la normativa conseguente (la quale confermava il trattato) il 19 Febbraio, il giorno prima della protesta prevista per chiedere il voto a riguardo. Immediatamente dopo che molte migliaia di protestanti affluirono ad una manifestazione anti-NATO a Belgrado il 20 Febbraio, il Presidente Nikolić ha pubblicato un articolo intitolato "Perchè ho firmato la normativa NATO", nel quale cercava di convincere il pubblico che i fondamenti ed i prerequisiti legali per lo statuto furono stabiliti 10 anni prima, quando la Serbia entrò a far parte del programma Partnership for Peace (PFP). Oltretutto, l’articolo assomiglia ad un tentativo di spostare gran parte della responsabilità per il riavvicinamento con l’alleanza sulle spalle delle precedenti amministrazioni. Ma guardiamo più da vicino come questo processo si svela, per una completa comprensione dell’accordo e facciamoci un’idea di cosa la Serbia si debba aspettare realisticamente dal futuro.

Tutto iniziò subito dopo la prima assoluta "rivoluzione elettorale" scoppiata a Belgrado ad Ottobre del 2000 (con l’aiuto di Washington). Durante questa rivoluzione, Slobodan Milošević -il presidente di ciò che una volta era la Repubblica Federale di Yugoslavia, ma che perse l’approvazione dell’Occidente- fu deposto. Il nuovo governo reindirizzò rapidamente la politica estera del paese verso gli ideali di integrazione europea -il che significava che la Serbia fosse quindi predestinata per un’integrazione nell’architettura della sicurezza europea, la quale è strettamente legata alla NATO.

Il primo punto di svolta fu l’accordo di Luglio 2005 con la NATO per permettere il transito al fine di condurre operazioni di pace (questo fu principalmente necessario per fare in modo che le forze della KFOR potessero passare attraverso la Serbia). In un certo modo esso fu un precursore dello Status of Forces Agreement (SOFA), che rappresenta il documento chiave firmato a Washington in totale segretezza a Gennaio 2014 da Nebojša Rodić, l’allora Ministro della Difesa, che pressoché in sordina e senza dibattito pubblico è stato ratificato dal Parlamento serbo a Luglio 2015.

Secondo il SOFA, Belgrado offrirà all’alleanza l’opportunità di usare le infrastrutture militari serbe, di addestrare i proprio soldati nella base militare serba Jug, di migliorare il quadro giuridico regolando la difesa entro le linee delle leggi europee, e di introdurre gli standard NATO ed il Processo di Bologna all’interno del sistema di educazione militare degli ufficiali serbi. L’accordo include anche una descrizione dettagliata delle problematiche legali concernenti la qualifica, i poteri e le responsabilità sia del personale militare che arriva da oltremare che degli uomini in servizio nel paese ospitante.

Il passo successivo è stata la firma a Gennaio 2015 del documento operativo conosciuto come Individual Partnership Action Plan (IPAP), che impone un ampio spettro di cooperazione tra la Serbia e l’alleanza NATO- non solo per ciò che riguarda la sicurezza e la difesa, ma anche in materia di diritti umani, politica economica, interna ed estera, includendo il prospetto di un’integrazione europea. Può lasciare perplessi, ma la Serbia ha addirittura promesso di "introdurre una strategia di informazione pubblica sulla cooperazione con le strutture Euro-Atlantiche attraverso il Partenariato per la pace con lo scopo di guadagnarsi il sostegno del popolo" il che significa che i Serbi che pagano le tasse devono tirar fuori dai propri portafogli i soldi per pagare la propaganda diretta verso di loro.

Tutti i documenti citati in precedenza, con l’aggiunta del recente Accordo sul Supporto Logistico, ancora così saldamente Belgrado con l’alleanza che non è di particolare utilità farne parte (che in ogni caso sarebbe impossibile a causa dell’opinione negativa sull’alleanza e del problema irrisolto del Kosovo). Come il redattore capo del giornale Nova srpska politička misao ("Il nuovo pensiero politico serbo"), Đorđe Vukadinović ha opportunamente affermato "nonostante la Serbia non sia ufficialmente entrata a far parte della NATO, la NATO è effettivamente entrata a far parte della Serbia".

"Divisione geopolitica"

Ancora allo stesso tempo, e nonostante la crescente propaganda Euro-Atlantica, la popolarità della Russia in Serbia sta crescendo, e l’idea di una "scelta europea" sta gradualmente perdendo i suoi devoti. Ciò è avvallato da uno studio condotto dalla Ipsos: nel 2014, il 54% del popolo avrebbe votato in favore dell’entrata nell’EU, ma nel primo 2016 la percentuale si è abbassata al 48% mentre il 46% ha espresso un’opinione positiva sulla Russia nel 2014, quest’anno questa percentuale ha raggiunto il 72%.

Un sondaggio condotto dal settimanale Vreme (Tempo) non solo ha pubblicato un numero quasi identico -50.9%- dopo aver riportato le risposte a proposito dell’integrazione europea, ma il giornale ha anche incluso la domanda "Sei a favore di un alleanza con la Russia?" alla quale il 67.2% ha risposto affermativamente (18.8% si sono opposti e 14% si sono astenuti).

Ed infine, in accordo con lo studio più recente condotto da una ONG serba, il Centro per le Elezioni libere e la Democrazia (CeSID), il quale è stato fondato su orientamento occidentale, si afferma che, la sera delle concluse elezioni per il parlamento (programmata il 16 Aprile), il 71.6% de pubblico è contro l’idea della "unione della Serbia con l’EU e la NATO" (con 11.2% "a favore" e 14% "indeciso") ed il 55.2% dell’elettorato ha indicato la loro preferenza per una "tradizionale affiliazione con la Russia" (con 19.2% "contro" e 21.5% "indeciso").

In questo contesto, la spesso rimandata sottoscrizione dell’accordo per la concessione dello status diplomatico al Centro Umanitario Serbo-Russo in Niš (che è stato recentemente concesso dal NSPO)sembra molto sospetta. Vale la pena ricordare che a Maggio 2014, quando la Serbia fu colpita da una devastante alluvione, le squadre di salvataggio russe furono le prime ad arrivare ed in soli due giorni furono in grado di evacuare più di 2.000 residenti (inclusi più di 600 bambini) dalla zona di inondazione, mentre il Ministero per la Gestione delle Emergenze russo inviò più di 140 tonnellate di soccorsi umanitari in Serbia (altrettanti in Bosnia ed Erzegovina). Secondo il giornale tedesco Der Spiegel,il problema reale sta nel desiderio tedesco di impedire ogni espansione dell’influenza russa nei Balcani. Il periodico ha affermato che la "Merkel ha telefonato al Primo Ministro Serbo Vučić intimandogli di non firmare il suddetto accordo perchè Berlino teme che questo centro possa diventare una base permanente per lo spionaggio russo". Ad una conferenza stampa del 1° Aprile tenuta dai Ministri degli Esteri di Serbia e Russia, Sergey Lavrov ha fatto un’interessante osservazione "Durante gli anni di operazioni di questo centro abbiamo risposto a questo tipo di paura e lamentele invitando l’EU e gli Stati Uniti a visitare il centro e a vedere con i loro occhi cosa fa il personale. Come era prevedibile, l’Unione Europea ha declinato il nostro invito. Sanno che le loro affermazioni sono false".

I funzionari del governo serbo continuano a recitare la frase "neutralità militare" in ogni occasione, come un mantra. Questo perché una risoluzione parlamentare del 2007 ha fatto riferimento al ruolo negativo della NATO nella recente storia serba annunciando una "decisione di proclamare la neutralità militare della Repubblica di Serbia nei confronti dell’esistete alleanza militare finché non si terrà un referendum per prendere una decisione definitiva sulla questione."

Ad ogni modo, secondo il diritto internazionale -nello specifico la Convenzione dell’Aia del 1907- in tempo di guerra è "proibito mobilitare truppe o convogli oppure munizioni di guerra o rifornimenti attraverso il territorio di potere neutrale". In altre parole, in caso di un conflitto regionale o internazionale, l’Accordo per il Supporto Logistico della NATO potrebbe invalidare lo status neutrale della Serbia. In aggiunta, l’idea stessa di un’integrazione europea presume una "politica comune in tema di sicurezza e difesa" -che è anche in qualche modo inconsistente con eufemismo considerarla "neutralità militare".

Il discutibile principio di "equilibrio" si è capovolto per ciò che riguarda la cooperazione militare: nel 2015 si sono tenute solo due inter-esercitazioni Serbo-Russe, mentre l’esercito Serbo ha preso parte a 22 esercitazioni a fianco della NATO. Ma anche questa limitata cooperazione con Mosca è stata aspramente condannata dell’Europa. Maja Kocijančič, un portavoce della Commissione Europea, ha denunciato il consenso della Serbia alla proposta di Mosca di programmare due inter-esercitazioni delle forze speciali nel 2016: "Nelle circostanze attuali, una simile inter-esercitazione militare (tra Serbia e Russia) invierebbe il segnale sbagliato".

Il nuovo governo che si formerà dopo le elezioni del 24 Aprile non avrà vita facile: il rapido crescente distaccamento tra la comunità Euro-Atlantica e la Russia comporta che Belgrado diventerà eventualmente una faglia geo-strategica. Quando, figurativamente, la terra incomincerà a muoversi sotto i piedi dell’elite serba, nessuna virtuosa "divisione geopolitica" permetterà loro di sfuggire alla risposta della domanda chiave -da che parte state voi, quindi?-

Traduzione
Alice Flasché
Fonte
Oriental Review (Russia)